Page 6 - Costellazioni 1-2009
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3. Riconoscere preventivamente le professioni e le relative connotazioni tipiche significa
bloccare il riconoscimento delle associazioni professionali attuali e future
In realtà, se il nostro impianto normativo fosse direttamente funzionale alle reali esigenze di regolazione dei
mercati, dall’analisi comparata dei diversi modelli di regolamentazione esistenti su base internazionale
dovrebbe emergere una sostanziale uniformità degli assetti (il modello di regolamentazione “killer”) o, per
converso, profonde distorsioni in quei Paesi dov’è in vigore un regime di minore livello di regolazione.
E invece, bisogna uscire dagli equivoci ideologici generati da informazioni incomplete e non approfondite.
Da qualsiasi punto di vista si effettui l’analisi comparativa, infatti, emerge in modo lampante che non solo
non esiste un modello di regolamentazione uniforme ma la maggioranza degli Stati, compresi quelli
anglosassoni, hanno un modello misto autorizzatorio/accreditatorio. E ancora: il mix medio tra i due sistemi
che è possibile osservare sia su base UE che a livello internazionale è di circa 25% di regolazione attribuita
al sistema autorizzatorio e di circa il 75% di regolazione accreditatoria (senza dimenticare che questa media
è influenzata dal fatto che alcuni Paesi come il nostro hanno una suddivisione percentuale pari a 95/5). Ma
non basta: come dimostrano le principali analisi economiche (comprese quelle “ufficiali” dell’OCSE e della
UE), non ci sono assolutamente riscontri empirici sul decadimento della qualità della prestazione
professionale in mercati meno regolati di quello italiano, ovvero regolati su base molto più concorrenziale: le
rilevanti quote di mercato con relativa soddisfazione della clientela conquistate anche nel nostro Paese da
alcuni soggetti professionali internazionali ad alta qualità delle prestazioni e provenienti da regimi con
minore intensità di regolazione dimostrano piuttosto il contrario.
Fra l’altro, tra le varie argomentazioni distorsive del processo concorrenziale a cui ricorrono i difensori dello
“status quo” quando si affronta il tema del riconoscimento giuridico delle associazioni professionali, va
sottolineata quella relativa al fatto di non considerare professione (con conseguente impossibilità di
riconoscere le relative associazioni) un’attività che riguardi prestazioni che hanno una connotazione “tipica”
delle professioni ordinistiche. Sulla base di tale impostazione “monopolistica”, non potrebbero essere
riconosciute le associazioni afferenti ad attività individuate come “tipiche” (“qualificanti”, secondo un’altra
definizione) sulla base degli ordinamenti di categoria delle professioni attualmente regolamentate.
Ma, riprendendo il ragionamento sulla staticità, il vero problema di fondo è che tali ordinamenti sono quelli
che, nella maggior parte dei casi, hanno competenze ed attività definite per legge (e mai più cambiate) fra il
1913 ed i primi anni ‘40 (notai 1913, architetti ed ingegneri 1923, geometri e periti industriali 1929, avvocati
1933, medici, farmacisti, ostetriche e veterinari 1946, tanto per citarne alcune). Le attività tipiche sono
pertanto quelle dove, nel tempo, si è più sviluppata una naturale competizione dei professionisti associativi
verso i professionisti ordinistici, una competizione che è andata a riempire (sul piano competenziale e di
mercato) quelli che possiamo definire gli spazi economici di specializzazione di quelle professioni.